La storia di Johnny Lo Zingaro, il criminale che terrorizzò Roma

johnny lo zingaro

di Valentina Magrin

tratto da www.nottecriminale.it

Venderà cara la pelle  Johnny non si arrenderà. Né finestre né mura né celle Mai potranno fermare la sua libertà (Gang, Johnny Lo Zingaro)

Giuseppe Mastini, da tutti ricordato come Johnny Lo Zingaro, è l’essenza pura del criminale. Senza capi, senza rimorsi (se non simulati per opportunità), senza pietà: Johnny è nato criminale e morirà criminale, ce l’ha nel sangue. La sua storia è esattamente lo specchio della sua anima.
 GLI ESORDI – Johnny Lo Zingaro nasce nel 1960 a Bergamo, da una famiglia di giostrai di etnia sinti. All’età di 10 anni si trasferisce a Roma, dove vive con i suoi cari all’interno di una roulotte e si occupa della gestione delle giostre. Nella capitale il piccolo Johnny non perde tempo: inizia subito a frequentare la criminalità giovanile del quartiere Tiburtino e a 11 anni ha già all’attivo un furto e una sparatoria con la polizia. Il 30 dicembre 1975, insieme al coetaneo Mauro Giorgio, rapina l’autista di tram Vittorio Bigi. Qualcosa però va storto, forse Bigi reagisce e così i due ragazzi gli sparano contro due colpi di pistola e ne occultano il cadavere, che verrà trovato una settimana più tardi – il 6 gennaio 1976 – in un prato in via delle Messi d’Oro (zona Tiburtina). Il 15 gennaio 1976 vengono emessi due ordini di cattura a carico di Johnny e del suo complice. Le accuse sono di omicidio volontario, rapina aggravata e porto abusivo di pistola. Il giorno successivo Johnny si costituisce e viene rinchiuso nel carcere minorile di Casal Del Marmo.
UN RAGAZZO IN FUGA – «Né finestre né mura né celle mai potranno fermare la sua libertà» cantavano i Gang nel 1991… già, Johnny è un criminale, non è fatto per stare in carcere. Appena due settimane dopo l’arresto, il 2 febbraio 1976 Johnny e altri quattro ragazzini detenuti, tra cui il suo complice Mauro Giorgio, evadono dal carcere di Casal Del Marmo. Il giorno dopo, però, Johnny e Giorgio si costituiscono.
Ecco come lo ricorderanno, a distanza di tempo, gli educatori del carcere di Casal Del Marmo: «Il giovane è dotato di una aggressività mai riscontrata in alcun ragazzo recluso in questo carcere. In lui abbiamo notato la totale assenza di interessi e l’estrema difficoltà al dialogo con coetanei ed adulti. Era aggressivo e violento senza motivi apparenti: picchiava, aggrediva, diceva parolacce, bestemmiava».
 Johnny viene trasferito al carcere minorile de L’Aquila, ma anche quelle sbarre gli stanno strette. Evade di nuovo, il 24 settembre 1977, ma la sua latitanza dura pochi giorni. Per l’omicidio dell’autista dell’Atac di Roma Lo Zingaro viene condannato a 11 anni di carcere.
Divenuto ormai maggiorenne, Johnny viene trasferito al carcere dell’Isola di Pianosa (Livorno). Da qui, nel 1981, fugge per l’ennesima volta, ma questa volta senza fare ritorno. Lo ritroviamo nel 1983 a Roma, dove nel frattempo ha ripreso la sua attività di rapinatore.
Viene fermato insieme a un complice, dopo un rocambolesco inseguimento tra il casello autostradale di Roma Nord e il grande raccordo anulare.

A bordo della sua auto vengono trovati un fucile a canne mozze, due pistole, numerose cartucce, otto passamontagna, nastro adesivo e due divise della guardia di finanza. Si sospetta quindi che Johnny, insieme ad altri, stesse organizzando un sequestro di persona. Viene rinchiuso nel carcere di Rebibbia, dove tenta ancora una volta di fuggire.

 Dopo un trasferimento a Volterra, l’atteggiamento del giovane malvivente cambia radicalmente, tanto che nel maggio 1986 torna a Rebibbia accompagnato da un rapporto in cui si legge che il ragazzo è bisognoso di sostegno, consapevole di dover cambiare strada e critico verso il periodo trascorso a Casal del Marmo.
È proprio il caso di dire che Johnny, con questa mossa, intorta tutti, fino a ottenere nel febbraio 1987 una licenza di otto giorni per “buona condotta”. Al termine della licenza, però, il finto redento non fa ritorno in carcere.  Al contrario, mette a segno decine di rapine in vari quartieri della capitale.
L’OMICIDIO DI PAOLO DURATTI : L’8 marzo 1987 Johnny Lo Zingaro si introduce furtivamente nella villa di Paolo Duratti a Sacrofano, nei pressi di Roma. Duratti, architetto di 37 anni, si trova a letto con la moglie Marie Veronique Michelle.  Quando viene sorpreso dal malvivente non reagisce ma Lo Zingaro, forse innervosito perché non trova gli oggetti preziosi che cercava, gli spara e lo uccide. Spara anche alla donna, che viene ricoverata in fin di vita ma sopravvive e fornisce importanti indicazioni per la cattura dell’assassino. Identificato con certezza anche da altre vittime di rapine, per Johnny scatta un ordine di cattura per omicidio a scopo di rapina, tentativo di omicidio e detenzione illegale di armi da fuoco. Vengono perquisiti accampamenti zingari, roulottes e baracche, ma senza alcun esito.
L’ULTIMA IMPRESA – Sono le 2 di notte del 24 marzo 1987. Una volante con a bordo due agenti intercetta una Fiat 128 lungo la circonvallazione Tuscolana. L’auto risulta rubata.  A bordo ci sono un uomo e due donne, che all’alt della polizia non si fermano. Si tratta di Johnny Lo Zingaro e della sua compagna Zaira Pochetti, di appena 20 anni.
Johnny la mattina precedente aveva messo a segno una rapina alle raffinerie della Fina in via degli Idrocarburi e, dopo aver lasciato la maggior parte del bottino (circa 80 milioni di lire) e una mitraglietta a bordo di una Fiat Uno, forse allo scopo di depistare gli inseguitori, si era messo in fuga. Con loro c’è anche una ragazza di 24 anni, Silvia Leonardi, sequestrata poco prima mentre si trovava in auto con un amico.
Tra gli agenti e Johnny ha inizio una sparatoria: Johnny, Zaira e la loro malcapitata compagna di viaggio riescono a fuggire dopo aver ferito i poliziotti e rubato loro le armi. Uno degli agenti, Michele Giraldi, raggiunto in volto dai proiettili dalla 357 Magnum di Johnny (la stessa che aveva ucciso Romano Paolo Duratti), morirà poche ore dopo all’ospedale San Giovanni.
 Giunti alla fine di via Palmiro Togliatti, i banditi hanno un altro scontro a fuoco con un brigadiere dei carabinieri a cui cercano di rubare l’auto. Riescono a fuggire in direzione Tor Lupara e qui rubano un’Alfa 2000. Si dirigono quindi verso Mentana, attraverso via Palombarese, lasciano l’Alfa e rubano una Fiat 131. Le ore passano. Verso le 10 del mattino la 131 viene intercettata nei pressi di Castel Gandolfo, ma ancora una volta nessuno riesce a fermarla.
 Un’ora più tardi la prima buona notizia: nei pressi di Monterotondo (in località Santa Colomba) Silvia Leonardi, riesce a fuggire.
 Viene ricoverata all’ospedale locale ma sta bene.
Racconterà di aver approfittato di un momento di debolezza dei suoi sequestratori: Johnny e Zaira infatti, si erano fermati ai bordi di un burrone per gettare la Fiat 131 e in quel mentre Zaira si era arrabbiata con Johnny accusandolo di essere interessato alla ragazza rapita. Evidentemente tra i due malviventi c’era del tenero e, nonostante le circostanze, la gelosia aveva avuto il sopravvento… A quel punto, quindi, Johnny aveva lasciato andare Silvia.
Nel frattempo le ricerche continuano con un dispiegamento di forze degno dei più efferati criminali: si contano più di 500 uomini tra poliziotti e carabinieri, oltre a unità cinofile ed elicotteri.
La zona tra Settebagni e Settecamini (tra via Salaria e via Nomentana) è completamente sotto assedio. Verso le 18.30, in località Fontanile, nei pressi di Santa Colomba di Settebagni, i carabinieri riescono a fermare e identificare Zaira Pochetti, che non oppone resistenza.
La giovane, nata in una famiglia difficile di Passoscuro (una borgata tutta abusiva sul litorale romano), aveva conosciuto Johnny pochi giorni prima e aveva deciso di seguirlo nelle sue scorribande. Johnny, invece, riesce a fuggire nella boscaglia e si rifugia in una baracca, inseguito dalle forze dell’ordine.
Per Johnny Lo Zingaro si avvicina la fine, oramai è circondato. Inizia quindi a parlare con gli agenti, guidati dal Capo della Squadra Mobile Rino Monaco, alternando minacce (“Se non ve ne andate faccio una strage”) a richieste di garanzie. Due ore dopo, alle 20.35, esce dalla baracca e, con un sorriso sprezzante, si fa ammanettare.
È finita.
Lo Zingaro, dopo 27 anni di vita vissuti all’insegna del crimine e del sangue, deve chinare la testa. Questa volta non ci sarà pentimento che tenga, questa volta nessuno avrà più pietà di lui, così come lui non ne ha mai avuta delle sue vittime.
 Il pericoloso bandito viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli e accusato di omicidio volontario pluriaggravato, tentativo di omicidio, sequestro di persona, violazione della legge sulle armi e furto d’auto.
 L’EPILOGO – Zaira Pochetti, la compagna di Johnny nella sua ultima fuga, muore il 17 dicembre 1988 per anoressia. Non ha superato lo stress dei mesi trascorsi in carcere.
Per Lo Zingaro, invece, il processo si apre nel febbraio 1989.
L’imputato respinge l’accusa dell’omicidio di Paolo Buratti e, per quanto riguarda l’omicidio del poliziotto Michele Giraldi, sostiene di aver sparato per difesa.
In primo grado Johnny Lo Zingaro viene condannato all’ergastolo per l’uccisione dell’agente Giraldi, mentre viene assolto per insufficienza di prove per l’omicidio di Paolo Buratti. In secondo grado, invece, viene condannato anche per questo delitto.
La condanna all’ergastolo sarà resa definitiva dalla Cassazione.
 IL CASO PASOLINI – Poco tempo dopo l’arresto del 1987, il nome di Johnny Lo Zingaro viene legato anche all’omicidio di Pier Paolo Pasolini, avvenuto all’Idroscalo di Ostia il 2 novembre 1975.
L’avvocato Nino Marazzita, avvocato di parte civile della famiglia di Pasolini, nell’aprile del 1987 presenta un’istanza affinché venga aperta una nuova inchiesta giudiziaria sull’uccisione dello scrittore. Nel 1979 la Cassazione aveva condannato Pino Pelosi come unico responsabile della morte di Pasolini.
 Marazzita, però, ritiene inverosimile la tesi di un unico killer: Pelosi, secondo l’avvocato, avrebbe avuto almeno un complice.
Questo complice potrebbe essere proprio Johnny Lo Zingaro, che da ragazzino aveva conosciuto Pelosi in un bar nel quartiere Tiburtino.
Di Johnny Lo Zingaro, inoltre, sarebbe l’anello perso da Pelosi nel luogo del delitto.
Anche Renzo Sansone, un carabiniere che nel corso delle indagini si era infiltrato nell’ambiente in cui era maturato il delitto, afferma: «La notte dell’omicidio con Pino c’erano anche i fratelli Giuseppe e Franco Borsellino e Giuseppe Mastini (vero nome di Johnny Lo Zingaro, ndr).
Erano quattro ladruncoli cresciuti insieme e volevano solo derubare lo scrittore».
Tuttavia nel 2005, nel corso di un interrogatorio, Lo Zingaro respingerà ogni addebito e nel 2011 sarà lo stesso Pelosi a scagionarlo:
 «Tra gli altri presenti quella sera sicuramente non c’era Giuseppe Mastini detto Johnny Lo Zingaro e a tal proposito, per togliersi qualsiasi dubbio, consiglio che il magistrato lo inviti a fare il test del Dna per confrontarlo con quello rinvenuto sul luogo del delitto come da ultime notizie riportate per verificare che non si tratta del suo».

 

Lascia un commento